Il target killed del Generale Soleimani deve essere inquadrato nella necessità del governo USA di ristabilire gli equilibri proporzionali nell’area, tali da riportare gli americani ad un totale controllo dell’espansione iraniana.
L’azione dei militari Usa non può essere messa in relazione alla politica interna statunitense ed ai problemi del Presidente.
E’ chiaro che Trump gioca la sua rielezione anche sullo scacchiere medio orientale, ma ha un forte aiuto dall’inerzia dei democratici che divisi e poco reattivi sono per ora spettatori passivi della vicenda iraniana.
Gli elettori americani vedono comunque con interesse le prove di forza del Pentagono e questo fa pensare ad una maggiore considerazione del presidente in relazione all’ipotesi di una sua rielezione.
L’ Iran procederà ad una serie di reazioni selettive non avendo capacità militari ed economiche per ingaggiare una crisi generale nel golfo, neppure tenterà a chiusura dello stretto di Hormuz per danneggiare le esportazioni di greggio.
Certamente ci saranno delle rappresaglie sulle postazioni militari americane, azioni queste moralmente obbligatorie per lo stato islamico ormai caduto nella trappola statunitense.
Se l’Iran non reagisce rischia una crisi di governo, ma la sua reazione non potrà mai essere esclamante come la popolazione vorrebbe.
Il Generale Soleimani è stato per anni tollerato ed a volte supportato dal Pentagono perché utile nel contenimento di Daesh, ora cambiando i contesti era più che logico che il leggendario militare sciita fosse diventato troppo ingombrante e troppo popolare nella sua visione di unire trasversalmente Iran ed Iraq nella fede sciita dei due paesi confinanti.
La sua eliminazione si colloca nella guerra ibrida e nelle alleanze dettate dall’utilità del momento.
L’odierno viaggio di Putin a Damasco dove ha incontrato il Presidente Siriano conferma la debolezza attuale iraniana di fronte all’ipotesi di uno scontro globale.